Contrariamente a quanto accadeva da almeno cinque anni, nella primavera del 2000 non c’erano stanze libere all’Hotel Mon Répos di Ginevra, dove di solito affittavamo un appartamento per la delegazione radicale e i vari oratori ospiti. In attesa che si liberasse una stanza, per qualche notte finii in una locanda a due stelle nel quartiere a luci rosse nei pressi della stazione centrale della città.
L’umile ma onesta bettola apparteneva a una famiglia kosovara scappata in Svizzera nei primi anni Novanta. Gestivano la locanda in attesa di poter tornare in patria una volta guadagnata la libertà e l’indipendenza dagli odiati serbi. Se le giornate le passavo alle prese con la burocrazia delle Nazioni Unite, le nottate se ne andavano chiacchierando con i proprietari dell'alberghetto ricordando la guerra nella ex-Jugoslavia. Erano originari di Malishevo, nel distretto di Prizren.
Nel gennaio del 1999, nel quadro della campagna del Partito Radicale per incriminare Slobodan Milosevič al Tribunale dell’Aja, avevo passato un paio di giorni su una montagna proprio nei pressi di Malishevo. La missione, finanziata dalla fondazione di George Soros, si era svolta prevalentemente nell'autunno dell'anno precedente con una serie di incursioni sotto mentite spoglie nelle varie repubbliche ex jugoslave per raccogliere le prove della responsabilità politica di Milosevič per i crimini di guerra e contro l’umanità commessi nei Balcani.
Dopo essere stati in Macedonia, Serbia e Montenegro e aver visitato più volte l’Albania, da ottobre a dicembre 1998, era venuto il momento di descrivere la catena di comando e il modus operandi dell’esercito per la liberazione del Kosovo (Uçk). Si trattava di un lavoro necessario per arrivare a dimostrare che si trattava di un’organizzazione con una vera e propria struttura militare che lottava per la resistenza e la liberazione della propria terra e non, come sosteneva il regime di Milosevič, di una banda di terroristi. La missione a Malishevo, in compagnia di Niccolò Figà-Talamanca, allora consigliere legale di Non c'è pace senza giustizia, e Florence Darques, una giurista francese, ci fece passare un paio di giorni in una baracca sotto la neve nel tentativo di intervistare la leadership di un gruppo di miliziani dell’Uçk. Eravamo arrivati a destinazione dopo una serie interminabile di telefonate. Dall’altra parte del nostro satellitare c’era la voce dello ‘lo squalo’ Hashim Thaçi, che dieci anni dopo sarebbe diventato il Primo ministro del Kosovo indipendente, che dal quartier generale dell’Uçk, probabilmente a Berna, ordinava ai vari check point kosovari di farci passare perché amici della ‘causa’.
Anche se pieni di cartine geografiche ricevute in gran segreto da Antonio Russo in un bar di Pristina qualche settimana prima, riuscimmo ad arrivare a destinazione solo grazie a una guida armata che ci era stata rocambolescamente assegnata in pianura nei pressi di quella che una volta doveva essere una scuola elementare. Mentre salivamo la stretta salita vero la vetta della montagna con la nostra 4x4 presa in affitto a Skopje in Macedonia, una lunga fila indiana di persone scendeva a piedi in raccolto silenzio. Si era da poco tenuta la cerimonia funebre in onore di uno dei comandanti del ‘battaglione’ che stavamo per incontrare. Nella ‘caserma’, una casa senza mobili col tetto robusto e riscaldata da un'unica stufa per stanza, si entrava scalzi. Accanto alla montagna di scarponi fangosi all'entrata c’erano decine di kalashnikov e pistole appoggiate al muro. Gli intervistati erano per lo più nostri coetanei. Per tre giorni mangiammo fegato arrosto e uova fritte a colazione, pranzo e cena. Si beveva del tè dolcissimo, tutti dallo stesso bicchierino.
La missione si concluse in tempo per poter compilare un dossier che fu poi consegnato alla giudice canadese Louise Arbour, all'epoca procuratrice del Tribunale ad hoc dell’Aja. Il documento fu in seguito distribuito alla stampa alla vigilia della conferenza di pace che la comunità internazionale, non paga dei fallimenti degli accordi di Dayton del novembre del '95 sempre sulla guerra iugoslava, convocò nel castello di Rambouillet in Francia nel febbraio 2000 coinvolgendo tutte le parti in causa per la ricerca di una "pace negoziata".
Non potei essere della partita perché mi trovavo a Lodi a raccogliere le firme per le regionali del 2000. Quel lavoro di documentazione delle responsabilità politiche e militari serbe e yugoslava effettuato dal Partito Radicale e No Peace Without Justice contribuì in modo sostanziale a definire i capi d’imputazione di Slobodan Milosevič, il quale, in effetti, di lì a poco sarebbe stato incriminato di crimini di guerra e contro l’umanità a partire da quelli commessi, per l’appunto, in Kosovo.
I racconti di come avevo contribuito all’incriminazione del presidente serbo mi fecero guadagnare la gratitudine e la stima dei proprietari della locanda. I ricordi dell’impresa furono sempre abbondantemente celebrati negli interminabili dopocena con sostanziose quantità di rakija, la vodka dei Balcani. Fortunatamente niente fegato o uova fritte.
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